Chi decide chi va processato?

In Italia vige un principio chiamato obbligatorietà dell’azione penale. In parole semplici, significa che ogni volta che un pubblico ministero viene a conoscenza di un reato, è tenuto per legge a indagare e – se ci sono prove sufficienti – a chiedere il processo. Non può scegliere a chi applicare la legge e a chi no. Questo principio nasce per garantire un’idea molto semplice ma fondamentale: la legge è uguale per tutti. Non importa chi sei, quanti soldi hai o quale potere eserciti: se violi la legge, lo Stato ha il dovere di intervenire. In teoria, è una garanzia democratica. In pratica, però, le cose si complicano. I PM spesso hanno troppe denunce, troppo poco personale e tempi lunghissimi. Non riescono a occuparsi di tutto, e questo porta inevitabilmente a una selezione dei casi. Proprio per questo motivo, alcuni propongono di cambiare il sistema e dare al PM la possibilità di scegliere liberamente se procedere o no, come già accade in altri paesi. Ma attenzione: questa apparente efficienza porta con sé un rischio enorme. Se togli l’obbligo, dai al magistrato un potere discrezionale molto ampio. E quando un potere non è ben bilanciato da controlli e garanzie, può diventare arbitrario. Il rischio è che la giustizia finisca per colpire solo alcuni, e lasciare immuni altri. Dal punto di vista liberaldemocratico, l’obbligatorietà dell’azione penale è un baluardo da difendere. È coerente con la separazione dei poteri, con la tutela del cittadino e con il principio di legalità. Piuttosto che eliminarla, dovremmo rafforzarla: dare più risorse alla giustizia, fissare criteri di priorità chiari e trasparenti, garantire controlli imparziali. Perché la vera riforma non è dare a qualcuno il potere di decidere chi processare, ma assicurarsi che la legge valga davvero per tutti. Sempre.

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